Nella pirotecnica conferenza stampa sul volo di ritorno dal Messico a Roma, papa Francesco ha tra l'altro ritirato fuori la storia che "Paolo VI – il grande! – in una situazione difficile, in Africa, ha permesso alle suore di usare gli anticoncezionali per i casi di violenza". Ed ha aggiunto che "evitare la gravidanza non è un male assoluto, e in certi casi, come in quello che ho menzionato del beato Paolo VI, [ciò] era chiaro".
Due giorni dopo, anche padre Federico Lombardi ha ritirato fuori la stessa storia, in un'intervista alla Radio Vaticana fatta con l'intento di raddrizzare ciò che era andato storto nelle dichiarazioni del papa riprese dai media, che sul via libera agli anticoncezionali avevano già cantato vittoria:
"Il contraccettivo o il preservativo, in casi di particolare emergenza e gravità, possono anche essere oggetto di un discernimento di coscienza serio. Questo dice il papa. […] L’esempio che [Francesco] ha fatto di Paolo VI e della autorizzazione all’uso della pillola per delle religiose che erano a rischio gravissimo e continuo di violenza da parte dei ribelli nel Congo, ai tempi delle tragedie della guerra del Congo, fa capire che non è che fosse una situazione normale in cui questo veniva preso in considerazione".
Ora, che Paolo VI abbia esplicitamente dato quel permesso non risulta per niente. Mai nessuno è stato in grado di citare una sola sua parola in proposito. Eppure questa leggenda metropolitana continua a stare in piedi da decenni, e puntualmente ci sono cascati anche Francesco e il suo portavoce.
Per ricostruire come è nata questa storia bisogna riandare non al pontificato di Paolo VI ma a quello del suo predecessore Giovanni XXIII.
Era il 1961, e la questione se fosse lecito che delle suore in pericolo d'essere violentate ricorressero a degli anticoncezionali, in una situazione di guerra come quella che imperversava allora in Congo, fu sottoposta a tre autorevoli teologi moralisti:
- Pietro Palazzini, all'epoca segretario della sacra congregazione del concilio e in seguito divenuto cardinale;
- Francesco Hürth, gesuita, professore alla Pontificia Università Gregoriana;
- Ferdinando Lambruschini, professore alla Pontificia Università del Laterano.
I tre formularono assieme i rispettivi pareri in un articolo sulla rivista di area Opus Dei "Studi Cattolici", numero 27, 1961, pp. 62-72, sotto il titolo: "Una donna domanda: come negarsi alla violenza? Morale esemplificata. Un dibattito".
I tre erano tutti favorevoli ad ammettere la liceità di quell'atto, sia pure con argomenti tra loro diversi. E questo parere favorevole non solo passò indenne al vaglio tutt'altro che remissivo del Sant'Uffizio, ma divenne dottrina comune tra i moralisti cattolici di ogni scuola.
Nel 1968 Paolo VI pubblicò l'enciclica "Humanae vitae", che condannò come "intrinsecamente cattiva ogni azione che, o in previsione dell'atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione". E questa condanna sarebbe poi entrata nel 1997, con le stesse parole, nel Catechismo della Chiesa cattolica.
Ma anche dopo la "Humanae vitae" la liceità del comportamento delle suore congolesi continuò ad essere pacificamente ammessa, senza che Paolo VI e i suoi successori dicessero alcunché.
Anzi, nel 1993, regnante Giovanni Paolo II, la questione tornò di nuovo sotto i riflettori, questa volta a motivo della guerra non in Congo ma in Bosnia. Il teologo moralista che quell'anno si fece autorevole portavoce della dottrina comune favorevole alla liceità fu il gesuita Giacomo Perico, con un articolo sulla rivista "La Civiltà Cattolica" stampata con l'imprimatur delle autorità vaticane, col titolo: "Stupro, aborto e anticoncezionali".
In realtà la controversia tra i moralisti, da allora fino a oggi, non riguarda la liceità dell'atto in questione, ma i fondamenti di tale liceità.
C'è chi ritiene la liceità di questo atto una "eccezione", alla quale se ne potrebbero quindi affiancare altre, valutate caso per caso, invalidando con ciò la qualifica di "intrinsecamente cattiva" – e quindi senza eccezione alcuna – applicata dalla "Humanae vitae" alla contraccezione.
E c'è invece chi ritiene l'atto delle suore congolesi o bosniache un atto di legittima difesa dagli effetti di un atto di violenza che non ha niente a che vedere con l'atto sessuale libero e volontario dal quale si voglia escludere la procreazione, sul quale e soltanto sul quale cade la condanna – senza eccezioni di sorta – della "Humanae vitae".
Lo studioso che più nitidamente ha ricostruito lo scontro tra queste due correnti è Martin Rhonheimer, professore di etica e filosofia politica alla Pontificia Università della Santa Croce, nel volume "Ethics of Procreation and the Defense of Human Life", The Catholic University of America Press, Washington, 2010, alle pagine 133-150, che a sua volta riproducono un suo precedente saggio uscito in italiano nel 1995 su "La Scuola Cattolica", la rivista della facoltà teologica di Milano, col titolo: "Minaccia di stupro e prevenzione: un'eccezione?".
A giudizio di Rhonheimer è la seconda tesi la più fedele al magistero della Chiesa, mentre la prima, tipicamente casuistica e "proporzionalista", offre il fianco alle critiche della "Veritatis splendor", l'enciclica di Giovanni Paolo II sulla teologia morale.
Ma curiosamente, è proprio verso questa prima tesi che sembrano pendere sia papa Francesco, nella conferenza stampa volante del 17 febbraio, sia ancor di più padre Lombardi nell'intervista del 19 alla Radio Vaticana.
L'uno e l'altro, infatti, distinguono tra l'aborto, male assoluto che non ammette eccezione alcuna, e la contraccezione, che invece – dicono – "non è un male assoluto" ma "un male minore" e quindi può essere consentita in "casi di emergenza o situazioni particolari".
Padre Lombardi cita come un altro di questi casi l'uso del preservativo in situazioni di rischio di contagio, commentato da Benedetto XVI nel suo libro-intervista "Luce del mondo" del 2010.
Ma appunto, riduce anche questo a un caso d'eccezione. Ignorando la nota chiarificatrice – di tutt'altro segno – che la congregazione per la dottrina della fede, dando voce a papa Benedetto, diffuse il 21 dicembre 2010 riguardo alle polemiche esplose a seguito di quel libro.
Due giorni dopo, anche padre Federico Lombardi ha ritirato fuori la stessa storia, in un'intervista alla Radio Vaticana fatta con l'intento di raddrizzare ciò che era andato storto nelle dichiarazioni del papa riprese dai media, che sul via libera agli anticoncezionali avevano già cantato vittoria:
"Il contraccettivo o il preservativo, in casi di particolare emergenza e gravità, possono anche essere oggetto di un discernimento di coscienza serio. Questo dice il papa. […] L’esempio che [Francesco] ha fatto di Paolo VI e della autorizzazione all’uso della pillola per delle religiose che erano a rischio gravissimo e continuo di violenza da parte dei ribelli nel Congo, ai tempi delle tragedie della guerra del Congo, fa capire che non è che fosse una situazione normale in cui questo veniva preso in considerazione".
Ora, che Paolo VI abbia esplicitamente dato quel permesso non risulta per niente. Mai nessuno è stato in grado di citare una sola sua parola in proposito. Eppure questa leggenda metropolitana continua a stare in piedi da decenni, e puntualmente ci sono cascati anche Francesco e il suo portavoce.
Per ricostruire come è nata questa storia bisogna riandare non al pontificato di Paolo VI ma a quello del suo predecessore Giovanni XXIII.
Era il 1961, e la questione se fosse lecito che delle suore in pericolo d'essere violentate ricorressero a degli anticoncezionali, in una situazione di guerra come quella che imperversava allora in Congo, fu sottoposta a tre autorevoli teologi moralisti:
- Pietro Palazzini, all'epoca segretario della sacra congregazione del concilio e in seguito divenuto cardinale;
- Francesco Hürth, gesuita, professore alla Pontificia Università Gregoriana;
- Ferdinando Lambruschini, professore alla Pontificia Università del Laterano.
I tre formularono assieme i rispettivi pareri in un articolo sulla rivista di area Opus Dei "Studi Cattolici", numero 27, 1961, pp. 62-72, sotto il titolo: "Una donna domanda: come negarsi alla violenza? Morale esemplificata. Un dibattito".
I tre erano tutti favorevoli ad ammettere la liceità di quell'atto, sia pure con argomenti tra loro diversi. E questo parere favorevole non solo passò indenne al vaglio tutt'altro che remissivo del Sant'Uffizio, ma divenne dottrina comune tra i moralisti cattolici di ogni scuola.
Nel 1968 Paolo VI pubblicò l'enciclica "Humanae vitae", che condannò come "intrinsecamente cattiva ogni azione che, o in previsione dell'atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione". E questa condanna sarebbe poi entrata nel 1997, con le stesse parole, nel Catechismo della Chiesa cattolica.
Ma anche dopo la "Humanae vitae" la liceità del comportamento delle suore congolesi continuò ad essere pacificamente ammessa, senza che Paolo VI e i suoi successori dicessero alcunché.
Anzi, nel 1993, regnante Giovanni Paolo II, la questione tornò di nuovo sotto i riflettori, questa volta a motivo della guerra non in Congo ma in Bosnia. Il teologo moralista che quell'anno si fece autorevole portavoce della dottrina comune favorevole alla liceità fu il gesuita Giacomo Perico, con un articolo sulla rivista "La Civiltà Cattolica" stampata con l'imprimatur delle autorità vaticane, col titolo: "Stupro, aborto e anticoncezionali".
In realtà la controversia tra i moralisti, da allora fino a oggi, non riguarda la liceità dell'atto in questione, ma i fondamenti di tale liceità.
C'è chi ritiene la liceità di questo atto una "eccezione", alla quale se ne potrebbero quindi affiancare altre, valutate caso per caso, invalidando con ciò la qualifica di "intrinsecamente cattiva" – e quindi senza eccezione alcuna – applicata dalla "Humanae vitae" alla contraccezione.
E c'è invece chi ritiene l'atto delle suore congolesi o bosniache un atto di legittima difesa dagli effetti di un atto di violenza che non ha niente a che vedere con l'atto sessuale libero e volontario dal quale si voglia escludere la procreazione, sul quale e soltanto sul quale cade la condanna – senza eccezioni di sorta – della "Humanae vitae".
Lo studioso che più nitidamente ha ricostruito lo scontro tra queste due correnti è Martin Rhonheimer, professore di etica e filosofia politica alla Pontificia Università della Santa Croce, nel volume "Ethics of Procreation and the Defense of Human Life", The Catholic University of America Press, Washington, 2010, alle pagine 133-150, che a sua volta riproducono un suo precedente saggio uscito in italiano nel 1995 su "La Scuola Cattolica", la rivista della facoltà teologica di Milano, col titolo: "Minaccia di stupro e prevenzione: un'eccezione?".
A giudizio di Rhonheimer è la seconda tesi la più fedele al magistero della Chiesa, mentre la prima, tipicamente casuistica e "proporzionalista", offre il fianco alle critiche della "Veritatis splendor", l'enciclica di Giovanni Paolo II sulla teologia morale.
Ma curiosamente, è proprio verso questa prima tesi che sembrano pendere sia papa Francesco, nella conferenza stampa volante del 17 febbraio, sia ancor di più padre Lombardi nell'intervista del 19 alla Radio Vaticana.
L'uno e l'altro, infatti, distinguono tra l'aborto, male assoluto che non ammette eccezione alcuna, e la contraccezione, che invece – dicono – "non è un male assoluto" ma "un male minore" e quindi può essere consentita in "casi di emergenza o situazioni particolari".
Padre Lombardi cita come un altro di questi casi l'uso del preservativo in situazioni di rischio di contagio, commentato da Benedetto XVI nel suo libro-intervista "Luce del mondo" del 2010.
Ma appunto, riduce anche questo a un caso d'eccezione. Ignorando la nota chiarificatrice – di tutt'altro segno – che la congregazione per la dottrina della fede, dando voce a papa Benedetto, diffuse il 21 dicembre 2010 riguardo alle polemiche esplose a seguito di quel libro.
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