Per respingere un attacco portato proprio alla ragione prima ancora che alla morale, in tempi normali sarebbe bastato il buon senso comune. Tuttavia non viviamo tempi normali e di fronte alla manipolazione mediatica incessante è diventato difficile attivare anche questo strumento elementare e alla portata di tutti. Così i movimenti omosessualisti hanno potuto realizzare l’impresa impossibile di capovolgere un fenomeno contro natura, da sempre ritenuto moralmente negativo, in una realtà degna addirittura di tutela giuridica, e l’operazione è riuscita attraverso l’inganno delle parole, l’arma perfetta nel mondo della approssimazione e del torpore delle idee.
Il fenomeno omosessuale è stato prima normalizzato attraverso la propaganda mediatica martellante e le canoniche esibizioni pubbliche della cui oscenità nessuno sembra essersi accorto. Ma l’obiettivo ben più ambizioso, era quello di farlo diventare un vero e proprio valore, quasi un bene culturale tutelato dalla legge. Sia da quella penale, secondo le ambizioni dello Scalfarotto, sia attraverso la conquista di uno status giuridico particolare assicurato ai proseliti dalla legge civile. È stato attivato il repertorio delle formule automatiche, con in cima la parola diritto, declinata nella forma del pluralia tantum “diritti”, subito adottato con compunzione da politici e dame di san Vincenzo, da giornalisti e vallette, dalle Gruber e dai Sofri, dagli operatori turistici e ora da cardinali e vescovi di ogni ordine e grado. Così è nata anche la convinzione plebiscitaria che il problema indilazionabile per la civiltà occidentale non è né il buco dell’ozono, né la fame nel mondo, non è il riscaldamento terrestre né la raccolta differenziata. Anche a Napoli l’annosa questione della monnezza è stata un po’ accantonata, insieme a quella dei soliti cristiani che si fanno massacrare dai fratelli islamici. No. Il problema che bisogna risolvere nelle oasi residue di inciviltà, è quello dei “diritti degli omosessuali”. Cioè dei diritti che spettano a chi si dedica ad una raffinata pratica sessuale, riservata un tempo a pochi amatori, ma destinata a diventare ora cultura di massa. In fondo oggi come oggi un diritto non si può negare a nessuna categoria di persone; il grande popolo che viaggia a sesso unico alternato, farà da battistrada per i cultori dei film di Dario Argento, i coltivatori casalinghi di marjiuana, i tifosi romanolaziali, bulimici e anoressici, collezionisti di auto d’epoca, e via dicendo. Tutta una dolente umanità in attesa paziente che si apra finalmente lo sportello dei diritti a tutto, in saldo per tutti.
Tuttavia sembra sfuggire alla moltitudine dei dispensatori di diritti che qualunque riconoscimento giuridico, qualunque forma di tutela particolare da parte dell’ordinamento, dovrebbe rispondere ad un certo interesse oggettivamente rilevante e che soltanto questo può giustificare quel trattamento privilegiato che ogni tutela particolare comporta. In mancanza di un tale interesse collettivo, la tutela privilegiata diventa arbitraria, perché ingiustificata. Infatti se la norma penale presuppone che vi sia un interesse fondamentale, un bene che va difeso per la comune convivenza pacifica, come la vita, la proprietà, l’onore, la incolumità personale ecc, per altro verso la legge civile provvede a regolare quei rapporti che sono essenziali per la vita ordinata della società ( famiglia, successioni, assistenza dei minori ecc). In questo quadro non si vede come la omosessualità possa diventare la causa giustificatrice di un particolare trattamento da parte della legge, fino a fondare la fantomatica categoria dei “diritti degli omosessuali”, che a forza di essere evocata appare più o meno a tutti anche plausibile.
Addirittura si parla di “riconoscimento dei diritti degli omosessuali”, come se si trattasse di una condizione a priori che attende solo di essere formalizzata. Qualcosa che ha a che fare quasi col diritto naturale, nonostante esso sia stato abolito definitivamente dalla chiesa di Bergoglio in vista del Sinodo sulla famiglia.
La farsa dei “diritti” va poi a parare in quella delle “coppie omosessuali”. Qui il coro canta ancora più forte per invocarne la consacrazione giuridica senza chiedersi ancora una volta che cosa rappresenti per l’interesse collettivo una coppia di omosessuali, conviventi occasionali, precari, stabilizzati o permanenti che siano. Una relazione che può vantare come valore qualificante soltanto i particolari gusti sessuali dei componenti, è indifferente per i fini di uno Stato ben ordinato che ha solo il compito di organizzare la vita sociale in vista del bene comune. Semmai, quella relazione, una volta che venga esibita e propagandata come espressione di normalità, va a ledere la libertà spettante ai genitori di modellare ragionevolmente la educazione dei propri figli sugli schemi predisposti dalla natura.
Qui si inserisce poi la pretesa distinzione di principio tra riconoscimento delle unioni omosessuali, che risulta stare a cuore quasi a tutti come cosa buona e giusta, e il matrimonio tra persone dello stesso sesso, da respingere perché capace di includere la possibilità di adozione. La differenza sbandierata ovviamente è a dir poco ridicola perché se non sposta di un millimetro la questione etica, che rimane la grande assente da qualunque discorso sul tema, non sposta nulla neppure sul piano delle conseguenze pratiche. Infatti ogni diversità di regime sarebbe comunque azzerata subito dalla Corte Costituzionale che come è noto scalpita per legiferare in materia e per consentire che interi collegi di pargoli vengano affidati alla sensibilità degli omosessuali, sensibilità notoriamente riconosciuta ed esaltata anche da certe autorità ecclesiastiche. Ma in ogni caso tutti sono pronti a giustificare almeno il riconoscimento giuridico delle “unioni omosessuali”, con un argomento risolutivo: l’amore. Esso è già diventato fuori e dentro la chiesa l’unico metro capace di sostituire qualunque altro criterio di valutazione. Ma che basti per fondare una pretesa giuridica è novità di questi tempi, a riprova della dissoluzione di una cultura secolare, che ha perduto per strada anche la cognizione dei principi basilari del diritto. Si pretende, senza battere ciglio che basti l’autocertificato sentimento affettivo che lega Tizio a Caio o Tizia a Caia (ma sono ammesse anche combinazioni più tradizionali) perché lo Stato debba mettere i propri strumenti di tutela sociale, amministrativa e giurisdizionale, al suo servizio. Con la logica conseguenza che, siccome tutti siamo più o meno provvisti di capacità affettiva, ogni rapporto alimentato dal sentimento potrà essere assistito dalla legge. Anche l’amore ricambiato per il mio bellissimo gatto nero, l’amore del collezionista per i suoi francobolli, quello adulterino del coniuge infedele. E poiché come diceva il poeta “odi et amo”, anche l’odio potrebbe diventare, perché no?, oggetto di tutela giuridica.
Ma alla fine di paradosso in paradosso, c’è un argomento decisivo che assicurerà il trionfo definitivo della causa omosessista. Un argomento capace di tagliare la testa al toro dei distinguo e che ha convinto ormai tutti, giovani e vecchi, politici e accademici, piastrellisti e ristoratori, chierici e laici e perfino il direttore di un giornale colto e snob come il Foglio. Per non parlare dei vertici della Cei, che notoriamente sono ligi allo spirito del tempo come lo era il Pasotti di “ Piccolo mondo antico” al Lombardo Veneto. Questo argomento definitivo è che una adeguata tutela giuridica deve essere assicurata alle coppie omosessuali in quanto esse esistono e sono anche numerose. Argomento logicamente ineccepibile, che consentirà la legalizzazione di Cosa Nostra (realtà parafamigliare, tra l’altro, di tutto rispetto), il furto con scasso, la rapina a mano armata, la falsificazione di cartamoneta, e, finalmente, soprattutto l’evasione fiscale che quanto a diffusione supera di certo anche le relazioni omoerotiche.
Intanto tutti parlano di diritti, tutele, civiltà, amore a più non posso. Dei bambini, che non sono uomini in fieri, ma soltanto ex grumi di cellule non abortite, eventualmente utilizzabili per ogni esperimento sociale, non occorre curarsi troppo. Tanto meno della loro formazione morale e della giusta educazione, perché essi sono stati catalogati da tempo fra i beni di consumo. Tra il cane e la barca o viceversa, a seconda delle possibilità. Se poi non riescono bene per qualche vizio genetico, si rimedierà presto anche con l’eutanasia infantile.
I fatti di Irlanda hanno liberato tutte insieme le perle dell’antiragione, malattia di cui ora la chiesa si rivela essere la vittima più illustre. Essa disponeva anzitutto della Parola di Dio, aveva insegnato a tutti per secoli la differenza tra il bene e il male, prima che un Concilio la rendesse un’idea ardua e imbarazzante. Ma disponeva anche del formidabile sistema di pensiero di cui l’aveva dotata da quasi un millennio il genio di un grande santo. Era stata maestra di sapienza e di studio, avrebbe potuto alzare una difesa formidabile contro ogni annichilimento della ragione, se non fosse stata penetrata a suo tempo da un pensiero per metà protestante e per metà marxista.
Così si è verificato il fenomeno inverso, e la Chiesa ha abbandonato i propri criteri e il proprio linguaggio ed ha assunto quello mondano e politico. Non parla di morale e di legge divina, e tanto meno di peccato, ma di diritti e di amor profano, ha assunto le categorie del secolo che avrebbe dovuto redimere, è stata contagiata dalla malattia del pensiero e delle parole, quasi ammaliata dal male che dovrebbe combattere. Dopo i fatti di Irlanda questo paradosso ha assunto in poche ore dimensioni stupefacenti. E’ esploso il coro impazzito di quanti a nome della Chiesa usano le stesse parole insensate e fasulle, gli stessi argomenti di lana caprina propri del mondo. Le parole di Mogavero e Galantino, Bagnasco e Parolin, pur con toni e sfumature diverse, sono sostanzialmente interscambiabili. Surclassate comunque da quelle dei convegnisti a porte socchiuse della scuola filosofica di Bergoglio. Passarle in rassegna, insieme agli editoriali del signor Tarquinio e dell’ Osservatore Romano, serve ora a completare il quadro desolante di questo abbandono collettivo della ragione.
Il fenomeno omosessuale è stato prima normalizzato attraverso la propaganda mediatica martellante e le canoniche esibizioni pubbliche della cui oscenità nessuno sembra essersi accorto. Ma l’obiettivo ben più ambizioso, era quello di farlo diventare un vero e proprio valore, quasi un bene culturale tutelato dalla legge. Sia da quella penale, secondo le ambizioni dello Scalfarotto, sia attraverso la conquista di uno status giuridico particolare assicurato ai proseliti dalla legge civile. È stato attivato il repertorio delle formule automatiche, con in cima la parola diritto, declinata nella forma del pluralia tantum “diritti”, subito adottato con compunzione da politici e dame di san Vincenzo, da giornalisti e vallette, dalle Gruber e dai Sofri, dagli operatori turistici e ora da cardinali e vescovi di ogni ordine e grado. Così è nata anche la convinzione plebiscitaria che il problema indilazionabile per la civiltà occidentale non è né il buco dell’ozono, né la fame nel mondo, non è il riscaldamento terrestre né la raccolta differenziata. Anche a Napoli l’annosa questione della monnezza è stata un po’ accantonata, insieme a quella dei soliti cristiani che si fanno massacrare dai fratelli islamici. No. Il problema che bisogna risolvere nelle oasi residue di inciviltà, è quello dei “diritti degli omosessuali”. Cioè dei diritti che spettano a chi si dedica ad una raffinata pratica sessuale, riservata un tempo a pochi amatori, ma destinata a diventare ora cultura di massa. In fondo oggi come oggi un diritto non si può negare a nessuna categoria di persone; il grande popolo che viaggia a sesso unico alternato, farà da battistrada per i cultori dei film di Dario Argento, i coltivatori casalinghi di marjiuana, i tifosi romanolaziali, bulimici e anoressici, collezionisti di auto d’epoca, e via dicendo. Tutta una dolente umanità in attesa paziente che si apra finalmente lo sportello dei diritti a tutto, in saldo per tutti.
Tuttavia sembra sfuggire alla moltitudine dei dispensatori di diritti che qualunque riconoscimento giuridico, qualunque forma di tutela particolare da parte dell’ordinamento, dovrebbe rispondere ad un certo interesse oggettivamente rilevante e che soltanto questo può giustificare quel trattamento privilegiato che ogni tutela particolare comporta. In mancanza di un tale interesse collettivo, la tutela privilegiata diventa arbitraria, perché ingiustificata. Infatti se la norma penale presuppone che vi sia un interesse fondamentale, un bene che va difeso per la comune convivenza pacifica, come la vita, la proprietà, l’onore, la incolumità personale ecc, per altro verso la legge civile provvede a regolare quei rapporti che sono essenziali per la vita ordinata della società ( famiglia, successioni, assistenza dei minori ecc). In questo quadro non si vede come la omosessualità possa diventare la causa giustificatrice di un particolare trattamento da parte della legge, fino a fondare la fantomatica categoria dei “diritti degli omosessuali”, che a forza di essere evocata appare più o meno a tutti anche plausibile.
Addirittura si parla di “riconoscimento dei diritti degli omosessuali”, come se si trattasse di una condizione a priori che attende solo di essere formalizzata. Qualcosa che ha a che fare quasi col diritto naturale, nonostante esso sia stato abolito definitivamente dalla chiesa di Bergoglio in vista del Sinodo sulla famiglia.
La farsa dei “diritti” va poi a parare in quella delle “coppie omosessuali”. Qui il coro canta ancora più forte per invocarne la consacrazione giuridica senza chiedersi ancora una volta che cosa rappresenti per l’interesse collettivo una coppia di omosessuali, conviventi occasionali, precari, stabilizzati o permanenti che siano. Una relazione che può vantare come valore qualificante soltanto i particolari gusti sessuali dei componenti, è indifferente per i fini di uno Stato ben ordinato che ha solo il compito di organizzare la vita sociale in vista del bene comune. Semmai, quella relazione, una volta che venga esibita e propagandata come espressione di normalità, va a ledere la libertà spettante ai genitori di modellare ragionevolmente la educazione dei propri figli sugli schemi predisposti dalla natura.
Qui si inserisce poi la pretesa distinzione di principio tra riconoscimento delle unioni omosessuali, che risulta stare a cuore quasi a tutti come cosa buona e giusta, e il matrimonio tra persone dello stesso sesso, da respingere perché capace di includere la possibilità di adozione. La differenza sbandierata ovviamente è a dir poco ridicola perché se non sposta di un millimetro la questione etica, che rimane la grande assente da qualunque discorso sul tema, non sposta nulla neppure sul piano delle conseguenze pratiche. Infatti ogni diversità di regime sarebbe comunque azzerata subito dalla Corte Costituzionale che come è noto scalpita per legiferare in materia e per consentire che interi collegi di pargoli vengano affidati alla sensibilità degli omosessuali, sensibilità notoriamente riconosciuta ed esaltata anche da certe autorità ecclesiastiche. Ma in ogni caso tutti sono pronti a giustificare almeno il riconoscimento giuridico delle “unioni omosessuali”, con un argomento risolutivo: l’amore. Esso è già diventato fuori e dentro la chiesa l’unico metro capace di sostituire qualunque altro criterio di valutazione. Ma che basti per fondare una pretesa giuridica è novità di questi tempi, a riprova della dissoluzione di una cultura secolare, che ha perduto per strada anche la cognizione dei principi basilari del diritto. Si pretende, senza battere ciglio che basti l’autocertificato sentimento affettivo che lega Tizio a Caio o Tizia a Caia (ma sono ammesse anche combinazioni più tradizionali) perché lo Stato debba mettere i propri strumenti di tutela sociale, amministrativa e giurisdizionale, al suo servizio. Con la logica conseguenza che, siccome tutti siamo più o meno provvisti di capacità affettiva, ogni rapporto alimentato dal sentimento potrà essere assistito dalla legge. Anche l’amore ricambiato per il mio bellissimo gatto nero, l’amore del collezionista per i suoi francobolli, quello adulterino del coniuge infedele. E poiché come diceva il poeta “odi et amo”, anche l’odio potrebbe diventare, perché no?, oggetto di tutela giuridica.
Ma alla fine di paradosso in paradosso, c’è un argomento decisivo che assicurerà il trionfo definitivo della causa omosessista. Un argomento capace di tagliare la testa al toro dei distinguo e che ha convinto ormai tutti, giovani e vecchi, politici e accademici, piastrellisti e ristoratori, chierici e laici e perfino il direttore di un giornale colto e snob come il Foglio. Per non parlare dei vertici della Cei, che notoriamente sono ligi allo spirito del tempo come lo era il Pasotti di “ Piccolo mondo antico” al Lombardo Veneto. Questo argomento definitivo è che una adeguata tutela giuridica deve essere assicurata alle coppie omosessuali in quanto esse esistono e sono anche numerose. Argomento logicamente ineccepibile, che consentirà la legalizzazione di Cosa Nostra (realtà parafamigliare, tra l’altro, di tutto rispetto), il furto con scasso, la rapina a mano armata, la falsificazione di cartamoneta, e, finalmente, soprattutto l’evasione fiscale che quanto a diffusione supera di certo anche le relazioni omoerotiche.
Intanto tutti parlano di diritti, tutele, civiltà, amore a più non posso. Dei bambini, che non sono uomini in fieri, ma soltanto ex grumi di cellule non abortite, eventualmente utilizzabili per ogni esperimento sociale, non occorre curarsi troppo. Tanto meno della loro formazione morale e della giusta educazione, perché essi sono stati catalogati da tempo fra i beni di consumo. Tra il cane e la barca o viceversa, a seconda delle possibilità. Se poi non riescono bene per qualche vizio genetico, si rimedierà presto anche con l’eutanasia infantile.
I fatti di Irlanda hanno liberato tutte insieme le perle dell’antiragione, malattia di cui ora la chiesa si rivela essere la vittima più illustre. Essa disponeva anzitutto della Parola di Dio, aveva insegnato a tutti per secoli la differenza tra il bene e il male, prima che un Concilio la rendesse un’idea ardua e imbarazzante. Ma disponeva anche del formidabile sistema di pensiero di cui l’aveva dotata da quasi un millennio il genio di un grande santo. Era stata maestra di sapienza e di studio, avrebbe potuto alzare una difesa formidabile contro ogni annichilimento della ragione, se non fosse stata penetrata a suo tempo da un pensiero per metà protestante e per metà marxista.
Così si è verificato il fenomeno inverso, e la Chiesa ha abbandonato i propri criteri e il proprio linguaggio ed ha assunto quello mondano e politico. Non parla di morale e di legge divina, e tanto meno di peccato, ma di diritti e di amor profano, ha assunto le categorie del secolo che avrebbe dovuto redimere, è stata contagiata dalla malattia del pensiero e delle parole, quasi ammaliata dal male che dovrebbe combattere. Dopo i fatti di Irlanda questo paradosso ha assunto in poche ore dimensioni stupefacenti. E’ esploso il coro impazzito di quanti a nome della Chiesa usano le stesse parole insensate e fasulle, gli stessi argomenti di lana caprina propri del mondo. Le parole di Mogavero e Galantino, Bagnasco e Parolin, pur con toni e sfumature diverse, sono sostanzialmente interscambiabili. Surclassate comunque da quelle dei convegnisti a porte socchiuse della scuola filosofica di Bergoglio. Passarle in rassegna, insieme agli editoriali del signor Tarquinio e dell’ Osservatore Romano, serve ora a completare il quadro desolante di questo abbandono collettivo della ragione.
(PATRIZIA FERMANI - riscossacristiana.it)