Che la Chiesa cattolica sia infestata e occupata dai cosiddetti progressisti e modernisti è ormai prova più che evidente. Un puntuale articolo di don Curzio Nitoglia ne tratta alcuni aspetti confutando alcuni loro luoghi comuni.
p.Elia
Introduzione
I progressisti e i neopagani son soliti presentare il Cristianesimo (specialmente quello primitivo e pre-costantiniano) come una religiosità pacifista, buonista, rivoluzionaria, democratica, socialistoide, per i soli poveri, giudaizzante, modernista ed egualitarista. Ora gli Atti degli Apostoli (scritti da S. Luca, divinamente ispirato, attorno al 60 d. C.) ci narrano la vita dei primi Cristiani e degli Apostoli dall’Ascensione sino alla prigionia di S. Paolo a Roma dal 61 al 63. Quindi, se vogliamo capire quale fosse la dottrina e la pratica religiosa dei primi Cristiani dobbiamo studiare gliAtti.
Cristianesimo primitivo giudaizzante?
Il deicidio
San Pietro nel 33, sùbito dopo la Pentecoste, tenne il suo primo discorso ai Giudei e disse: “Gesù Nazareno […] essendo stato tradito, voi trafiggendolo per le mani lo uccideste” (Atti, II, 23).
Come si vede S. Pietro affermò che i Giudei avrebbero dovuto ammettere la messianicità e divinità di Cristo, avendo visto i suoi miracoli. Invece, essendo stato tradito da Giuda dietro istigazione del Sinedrio, fu consegnato ai Giudei e questi, servendosi dei Romani come di uno strumento, lo misero in croce e lo uccisero. Padre Marco Sales commenta: “Quale intrepidezza in Pietro nell’accusare pubblicamente i Giudei di essere i veri responsabili della morte di Gesù, e nell’affermare che i Romani furono semplici strumenti della loro malvagità” (Commento a Gli Atti degli Apostoli, Proceno di Viterbo, Effedieffe, 2016, p. 28, nota 23). Quindi il filo-giudaismo e l’anti-romanità del Cristianesimo primitivo sono confutati sin dalle prime pagine degli Atti, che da una parte insegnano chiaramente la responsabilità dei Giudei e non dei soli Sinedriti nel deicidio, mentre dall’altra mostrano come i Romani avessero cercato di scagionare i Cristiani dalle accuse giudaiche.
S. Pietro rimproverò ancora una volta i Giudei di aver crocifisso Gesù: “Uomini Israeliti […]. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei padri nostri ha glorificato il suo Figlio Gesù, il quale voi avete tradito e rinnegato davanti a Pilato. Quando questi aveva giudicato di liberarlo. Ma voi rinnegaste il santo e il giusto, e chiedeste che vi fosse dato per grazia un omicida. E uccideste l’Autore della vita” (III, 12-15). Anche in questo passo Pietro disse apertamente che i Giudei avevano ucciso Cristo e poi li esortò a fare penitenza (vv. 17-26). Egli spiegò che avevano tradito Gesù consegnandolo, come se fosse un malfattore, in mano al magistrato romano. Inoltre negarono, davanti a Pilato, che Gesù fosse il Messia, mentre Pilato lo aveva riconosciuto innocente e lo voleva liberare, ma essi gli preferirono un assassino: Barabba. In terzo luogo Pietro accusò specialmente i capi del Sinedrio di aver condannato Gesù: “Prìncipi del popolo e seniori, ascoltate […] nel nome del Signore nostro Gesù Cristo Nazareno che voi crocifiggeste” (IV, 10). Padre Sales chiosa: “Quali effetti prodigiosi ha prodotto lo Spirito Santo in S. Pietro! Egli, povero pescatore così timido, parla con tanta franchezza, con tanto coraggio e tanta sapienza che gli stessi membri del Sinedrio restano confusi. […]. S. Pietro rende così testimonianza a Gesù davanti al più alto consesso della nazione, affermando nuovamente la colpa di Israele nella morte di Gesù” (cit., p. 37, nota 8-10).
Le persecuzioni giudaiche contro i Cristiani
Comunemente si dice che i Romani perseguitarono i Cristiani, in realtà le prime persecuzioni furono suscitate e dirette dai Giudei, che in molti casi le fecero eseguire ai Romani. Abbiamo visto come S. Luca riveli che Pilato voleva mandar libero Gesù (III, 12), mentre i Giudei gli preferirono Barabba e condannarono a morte Gesù, facendo eseguire la sentenza da Roma. Inoltre gliAtti ci narrano le prime persecuzioni subite dagli Apostoli: “Mentre gli Apostoli (Pietro e Giovanni) parlavano al popolo, sopraggiunsero i sacerdoti, il magistrato del tempio e i Sadducei, crucciati che istruissero il popolo e annunziassero in Gesù la risurrezione dalla morte: e misero loro le mani addosso e li fecero custodire per il giorno seguente. […]. Affinché non si divulghi maggiormente tra il popolo, proibiamo loro con gravi minacce di non parlare più nel nome di Gesù” (IV, 1-17). Il motivo della persecuzione è sempre lo stesso: la divinità di Cristo. Roma, religiosamente tollerante, non si curava assolutamente di avere una divinità in più e non proibiva la predicazione di Gesù, ma i Giudei la ritenevano una bestemmia da punire con la morte. Di qui tutte le persecuzioni contro Gesù stesso e poi contro gli Apostoli, con il martirio di S. Stefano (35 d. C.) e di S. Giacomo (42 d. C.). Nel capitolo successivo degli Atti si legge che i sacerdoti fecero arrestare i due Apostoli una seconda volta (V, 17-25), ma “L’Angelo del Signore di notte tempo aprì le porte della prigione e condottili fuori disse loro: Andate e state nel tempio a predicare al popolo”. Nel capitolo VI (vv. 8-15) si legge la condanna alla lapidazione di S. Stefano da parte del Sinedrio avvenuta appena 2 anni dopo la crocifissione di Gesù. Dopo la lapidazione di Stefano (descritta nel capitolo VII) gli Atti ci parlano della “Grande persecuzione contro la Chiesa che era in Gerusalemme” (VIII, 1). Padre Sales commenta: “L’odio furioso dei Giudei non fu pago del sangue di una vittima, ma proruppe in una persecuzione violenta contro tutta la comunità cristiana di Gerusalemme” (cit., p. 58, nota 1).
Al capitolo XII degli Atti ci viene narrato il martirio di S. Giacomo il Maggiore, fratello di S. Giovanni l’Evangelista, che morì decapitato nel 42 in Gerusalemme. Il testo sacro recita: “In quel tempo il re Erode cominciò a maltrattare alcuni della Chiesa. E uccise di spada Giacomo fratello di Giovanni. E vedendo che ciò dava piacere ai Giudei, aggiunse di far catturare anche Pietro” (XII, 1-2). In realtà Pietro fu fatto imprigionare, ma fu liberato miracolosamente da un Angelo (XII, 7). Nel 58 anche S. Paolo fu fatto arrestare dal Sinedrio, che avrebbe voluto lapidarlo, ma Paolo fu salvato dal tribuno romano Claudio Lisia che fece intervenire immediatamente i suoi soldati (XXI, 27-40).
Cristianesimo socialista?
Molti asseriscono che i primi Cristiani vivevano in una specie di regime comunista, in cui tutti i beni venivano messi in comune e la proprietà privata era stata abolita. Tuttavia, se leggiamo bene gli Atti vediamo che le cose non stanno esattamente così. Infatti S. Luca rivela che “tutti i credenti erano uniti e avevano tutto in comune. E vendevano le possessioni e i beni, e distribuivano il prezzo a tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (II, 44-45). Questi due versetti vanno bene interpretati e letti alla luce degli altri passi paralleli degli Atti. Essi dicono che i Cristiani cercavano di stare assieme specialmente nelle ore di preghiera, conducevano una vita di famiglia, avendo tutto in comune, simile a quella che Gesù aveva condotto con i suoi Apostoli. I Cristiani ricchi (il Cristianesimo non è la religione dei soli poveri) vendevano i beni che avevano e col guadagno ricavatone sollevavano gli altri Cristiani dalla povertà. Attenzione! S. Luca non dice che i Cristiani erano obbligati a vivere in comune e a vendere tutti i loro beni, ma che molti di loro sceglievano liberamente questo genere di vita, simile a quello delle comunità monastiche, senza che la comunanza di vita fosse obbligatoria né assoluta. Inoltre negli Atti si legge anche che Maria, madre dell’Evangelista Marco, accolse nella sua casa i fedeli (XII, 12). Quindi la proprietà privata era lecita, mentre la scelta della vita in comune era libera. Vediamo bene il testo sacro: “Pietro andò alla casa di Maria madre di Marco, dove stavano congregati molti (Cristiani) e facevano orazione”. Padre Sales commenta: “Maria doveva essere di condizione piuttosto agiata, se poteva fare una chiesa della sua casa” (cit., p. 77, nota 12). Quindi Maria aveva mantenuto la proprietà della “sua” casa ed essa era talmente grande da poter ospitare “molti” Cristiani per pregare assieme. Infine, nell’episodio di Anania e Saffira (V, 4), S. Pietro dice ad Anania che avrebbe potuto ritenere per sé il campo venduto o il prezzo ricavatone. Vediamo bene il testo: “Un certo uomo di nome Anania con Saffira sua moglie vendette un podere, e d’accordo con sua moglie ritenne parte del prezzo: e portatane una porzione, la pose ai piedi degli Apostoli. E Pietro disse: Anania, come mai Satana tentò il cuor tuo da mentire allo Spirito Santo e ritenere il prezzo del podere? Non è vero che conservandolo stava per te, e venduto era in tuo potere? Per qual motivo ti sei messo in cuore tal cosa? Non hai mentito agli uomini, ma a Dio”. Anania vendette liberamente il suo podere, e non era obbligato a farlo, poi per vanagloria finse di offrire a Dio, tramite gli Apostoli, tutto il prezzo ricavato. Ora gli Apostoli erano i messaggeri di Dio. Quindi mancare di sincerità verso loro significava mentire a Dio. È per questo motivo che Anania venne ripreso da Pietro. Padre Sales commenta: “Anania era assolutamente padrone del denaro ricavato; poteva ritenerlo in tutto o in parte come voleva senza commettere alcun peccato; tutta la sua colpa sta nel fatto di aver mentito dicendo agli Apostoli di offrire l’intero prezzo, mentre invece non ne offriva che una parte. Dal rimprovero di Pietro si rende sempre più manifesto che non era cosa di obbligo spogliarsi degli averi, che si fossero posseduti” (cit., p. 40, nota 4). Ancora una volta S. Luca ci dice che i Cristiani “erano un solo cuore e una sola anima: e né vi era chi dicesse essere sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto tra essi era comune. […]. E non vi era alcun bisognoso tra di essi. Mentre tutti coloro che possedevano case o terreni li vendevano e portavano il prezzo delle cose venduta e lo deponevano ai piedi degli Apostoli e si distribuiva a ciascuno secondo il suo bisogno” (IV, 32-35). Padre Sales commenta: “In forza di questa grande carità che vi era tra i Cristiani, è naturale che i ricchi ritenessero le loro sostanze come depositi affidati da Dio alla loro custodia, e si mostrassero pieni di generosità verso gli indigenti. […]. Vi erano tra i Cristiani alcuni poveri, ma venivano soccorsi dalla generosità dei ricchi, per modo che non erano propriamente bisognosi. Quanto alla dicitura ‘tutti coloro che possedevano’, non si devono prendere queste parole in un senso troppo stretto, quasi che tra i Cristiani ‘tutti’ si spogliassero delle loro possessioni, poiché sappiamo che la madre di Marco, benché cristiana, aveva una casa (XII, 12) e di più lo stesso S. Pietro affermò, davanti ad Anania e Saffira (XII, 14), che non era d’obbligo vendere le proprie sostanze. Tuttavia è certo che alcuni si spogliavano realmente di tutto ed altri vendettero solo parte dei loro beni per soccorrere il loro prossimo” (cit., pp. 39-40, nota 33-34).
Come si vede il Cristianesimo apostolico non aveva nulla a che spartire con la dottrina comunista.
Cristianesimo democratico?
Gli Atti narrano che i Dodici Apostoli decisero di nominare dei Diaconi (VI, 1-7) di modo che questi ultimi si dedicassero al servizio dei bisognosi e i primi alla orazione e alla predicazione del Vangelo. Quindi sin dall’inizio la Chiesa risulta essere gerarchica, ossia costituita da membri che comandano e membri che ubbidiscono. Infatti i Dodici “fatta orazione imposero loro (ai Diaconi) le mani” (VI, 6). Padre Sales commenta: “Per il fatto stesso che l’imposizione delle mani è qui accompagnata dall’orazione liturgica e che agli eletti viene affidata anche la predicazione del Vangelo (VI, 10; VIII, 5) è chiaro che con questo rito gli Apostoli non intesero solo di dare una benedizione qualunque, ma vollero consacrare gli eletti a Dio per il ministero della Chiesa e conferire loro una parte di quell’autorità che essi avevano ricevuto da Gesù Cristo. L’imposizione delle mani, congiunta con la preghiera, fu quindi una vera ordinazione, che conferì agli eletti l’autorità e la grazia necessaria per adempiere degnamente le funzioni del loro ministero. Queste funzioni non erano solo di servire alle mense e occuparsi delle cose temporali, ma anche di distribuire la SS. Eucarestia e di predicare il Vangelo. Gli investiti di tali funzioni vennero chiamati Diaconi” (cit., p. 46, nota 6). Quindi si vede bene che la Chiesa sin dall’inizio era gerarchica e non democratica, composta di fedeli, Diaconi, Presbiteri, Apostoli sotto un solo Capo: Pietro. E quando sorse il problema dogmatico, se per salvarsi occorresse osservare ancora il cerimoniale del Vecchio Testamento, gli Apostoli salirono a Gerusalemme, si riunirono in Concilio (nel 50), in cui Pietro definì che bastava la fede in Cristo accompagnata dalle buone opere (XV, 1-34).
“È un fatto storico incontestabile che già nel II secolo le comunità cristiane erano rette da singoli vescovi” (A. Lang, Compendio di Apologetica, Casale Monferrato, Marietti, II ed., 1960, p. 346), ossia ogni diocesi aveva un solo vescovo. Questo è il mono-episcopato o l’episcopato monarchico diocesano subordinato a quello monarchico del romano Pontefice.
S. Ireneo da Lione († 202), discepolo di S. Policarpo († 167) che a sua volta era stato discepolo dell’Apostolo S. Giovanni, ha insegnato costantemente il valore fondamentale della Tradizione apostolica contro le eresie (specialmente lo Gnosticismo) che già funestavano la Chiesa e in pratica per stabilire ove risiedesse la vera Tradizione apostolica si fondava sulla successione ininterrotta dei vescovi dagli Apostoli.
Egli scriveva: “Noi possiamo enumerare i vescovi delle singole chiese particolari o diocesi nominati dagli Apostoli ed i loro successori sino ai tempi nostri” (S. Ireneo, Adv. haer., III, 3, 1). Ciò significa che al tempo di S. Ireneo ogni chiesa particolare o diocesi aveva un singolo vescovo.
Eusebio da Cesarea (265-339) nella sua Historia Ecclesiastica scriveva che verso il 150 i mono-episcopi detenevano dappertutto il governo delle singole diocesi. Egli ha narrato che l’eresia montanista negava la Chiesa gerarchica fondata su Pietro e gli Apostoli e i loro successori (il Papa e i vescovi) e le contrapponeva la Chiesa profetica (errore ripreso dal millenarismo gioachimita e dal carismatismo protestantico). I singoli vescovi nelle loro diocesi e in concili provinciali combatterono questa eresia. Ciò dimostra come il mono-episcopato fosse non solo esistente, ma pienamente attivo sin dai primi anni della Chiesa (Hist. Eccles., V, 3, 4 ss.; VI, 12, 1 ss.).
S. Ignazio di Antiochia († 110) è l’autore che ci ha lasciato la testimonianza più importante sull’esistenza dell’episcopato monarchico dei vescovi nelle loro diocesi (Ephes., 3, 2): nelle comunità cristiane dell’Asia Minore tra la fine del I secolo e l’inizio del II esisteva già una netta divisione in tre gradi dell’ufficio gerarchico ecclesiastico: il mono-episcopato, il presbiterato e il diaconato e dovunque il singolo vescovo esercitava la piena giurisdizione sulla sua diocesi. “Il vescovo unico è l’immagine del Padre” (Trall., 3, 1). Quel che è molto interessante è il fatto che S. Ignazio non spiegava l’origine del mono-episcopato, né lo motivava o lo giustificava perché secondo lui era un fatto stabile, già definito e tradizionale.
La Chiesa non è una evoluzione autoritaria delle primitive e spontanee comunità cristiane a base carismatica e democratica. Essa risale alla divina Istituzione da parte di Gesù Cristo. La Chiesa primitiva e le prime diocesi non poggiano su un potere conferito loro dal basso, ossia dalla comunità dei fedeli, ma su un potere che viene dall’Alto. Il governo della Chiesa è sin da principio di natura autoritaria, monarchica (cfr. R. Sohm, Kirchenrecht, Leipzig, 1892, vol. I, p. 54). Tutti i poteri, le grazie e le verità arrivano alla Chiesa da Cristo come fonte tramite gli Apostoli come canali, che hanno una successione ininterrotta per divina Istituzione tramite i Papi e i vescovi. La successione apostolica e petrina è essenziale per la Chiesa (Tertulliano, De praescr. haeret., 32, 1; S. Ippolito,Philosophumena, I, pref.; Eusebio da Cesarea, Hist. Eccl., VI, 43, 8-9).
Cristianesimo buonista?
Nel caso, già visto, di Anania e Saffira (V, 1-11) si legge anche che S. Pietro li rimproverò per avere mentito a Dio e “udito che ebbe Anania queste parole cadde e spirò. E gran timore entrò in quelli che udirono. E si mossero alcuni giovani e lo tolsero di là e lo portarono a seppellire” (V, 5-6). Infatti “Anania sapeva che gli Apostoli erano come gli organi dello Spirito Santo e che mancare di sincerità verso di loro era un mentire a Dio. Anania era assolutamente padrone del denaro ricavato dalla vendita del suo terreno; tutta la sua colpa consisté nell’aver mentito dicendo il falso. […]. Con questo esempio terribile [della morte repentina di Anania, ndr] Dio volle far vedere quanto aborrisca la menzogna e il sacrilegio e volle pure rendere più rispettabile la persona e l’Autorità dei suoi Apostoli” (M. Sales, cit. p. 40, nota 3-4). Lo stesso avvenne a Saffira (la moglie di Anania). Padre Sales commenta: “Alcuni Padri hanno pensato che Dio, infliggendo un sì terribile castigo temporale ai due coniugi, abbia voluto risparmiare loro la vita eterna” (cit., p. 41, nota 11). Certamente l’atteggiamento di S. Pietro e di Dio non è buonista, ma sommamente giusto e nello stesso tempo misericordioso.
La giustizia e la severità di Dio appaiono anche nella descrizione della morte di Erode Antipa (XII, 23), che si compiacque di essere onorato e adulato come Dio, ma “ad un tratto l’Angelo del Signore percosse Erode perché non aveva dato gloria a Dio: e, roso dai vermi, spirò”. Padre Sales commenta: “L’Angelo della vendetta di Dio sùbito lo punì della sua arroganza. Anche Giuseppe Flavio narra che poco dopo aver ascoltato quella adulazione Erode fu colto da forti dolori di visceri, e in capo a 5 giorni morì, all’età di 54 anni. La sua morte avvenne nell’anno 44. Così il primo persecutore della Chiesa fu colpito da Dio con quella stessa malattia da cui era stato colpito il profanatore del tempio: Antioco Epifane” (cit., p. 78, nota 23).
Un altro esempio di severità e assenza di buonismo presso i primi Cristiani lo troviamo nel processo intentato dal Sinedrio (ancora una volta non sono i Romani a perseguitare i Cristiani, ma i Giudei) a S. Paolo nel 58 (XXIII, 1-10). Infatti mentre Paolo veniva interrogato, “Anania, il principe dei sacerdoti, ordinò ai circostanti che lo percuotessero nella bocca” (XXIII, 2). Ma S. Paolo rispose: “Iddio percuoterà te, sepolcro imbiancato. Tu siedi per giudicarmi secondo la legge e, contro la legge, ordini che sia percosso?” (v. 3). In realtà Anania morì assassinato 8 anni dopo da un sicario nel 66 (Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, II, 7, 9). Le parole di Paolo “non esprimono un desiderio di vendetta, ma una minaccia della giustizia di Dio, che non lascerà impunito l’oltraggio ricevuto. Inoltre S. Paolo definisce ‘sepolcro imbiancato’ Anania perché realmente era apparentemente senza macchie al di fuori, ma pieno di iniquità e di ipocrita perfidia al di dentro. Infatti mentre sembrava agire per amor di giustizia, si lasciava trasportare dall’odio, ledendo la giustizia” (M. Sales, cit., p. 135, nota 2-3). Inoltre quando “i circostanti dissero a Paolo: Tu oltraggi il Sommo Sacerdote di Dio?” (v. 4) l’Apostolo rispose: “Fratelli, io non sapevo che egli è il Principe dei Sacerdoti” (v. 5). Secondo gli esegeti “Paolo parlerebbe con ironia: Non sapevo che fosse Sommo Sacerdote costui, che in modo così aperto vìola la legge” (M. Sales, cit., p. 135, nota 5). Anche qui è assente ogni ombra di spirito buonista e pacifista.
Cristianesimo anti-complottista?
Sempre negli Atti (XXIII, 12-15) si legge la narrazione del complotto che ordirono i Giudei contro S. Paolo. Infatti mentre l’Apostolo veniva giudicato dal Sinedrio, il tribuno romano (Lisia) lo salvò e lo fece portare al sicuro in una fortezza per paura che i Giudei “lo facessero a pezzi” (v. 9). Allora “si riunirono alcuni dei Giudei e giurarono sopra di sé, dicendo che non avrebbero mangiato né bevuto, finché non avessero ucciso Paolo. Ed erano più di quaranta quelli che avevano fatto questa congiura” (v. 12-13). Appare chiara, nella divina Rivelazione, la narrazione del complotto ordito dalla “Sinagoga di Satana” (Apoc., II, 9) contro il Cristianesimo sin dai suoi primi anni di vita e come, quindi, il Cristianesimo sia alieno da ogni tendenza anti-complottista.
Cristianesimo antiromano?
S. Paolo nel 58 venne trascinato davanti al tribunale romano in Cesarea dai Giudei (XXIV, 1-9) e comparve davanti al tribuno Felice. Ora mentre i Giudei avrebbero voluto uccidere Paolo questi si appellò a Cesare per essere interrogato e giudicato dall’Imperatore romano, essendo Palo cittadino romano (XXV, 1-12). Si vede, quindi, che l’Apostolo ebbe più fiducia nell’Imperatore che nel Sinedrio. Inoltre quando S. Paolo nell’autunno del 60 partì da Cesarea, dopo esservi restato circa 2 anni (dal 58 al 60), su una nave per andare a Roma ed essere interrogato da Nerone, venne consegnato ad un centurione romano di nome Giulio (XXVII, 1), che “lo trattò umanamente, gli permise di andare a trovare i Cristiani [nei vari scali fatti dalla nave, ndr] e di ristorarsi” (XXVII, 3). Quando Paolo, dopo varie peripezie, giunse a Roma nella primavera del 61 (XXVIII, 16) gli “fu permesso di starsene da sé con un soldato che lo custodiva”. Padre Sales commenta: “Le buone informazioni date dal tribuno Festo nella lettera con cui aveva fatto accompagnare Paolo a Roma e i buoni uffizi del centurione Giulio, fecero sì che l’Apostolo venisse trattato con molta indulgenza, e invece di essere relegato in una prigione, potesse rimanere da sé presso qualche cristiano, oppure in qualche casa d’affitto sotto la continua custodia di un soldato pretoriano. […]. Il soldato di guardia veniva cambiato spesso e così Paolo ebbe occasione di far conoscere il Vangelo a molti pretoriani (cfr. Filipp., I, 12). Paolo consacrò i primi giorni della sua permanenza in Roma sia a riposarsi alquanto dal lungo viaggio e sia ad istruire e confortare i Cristiani; ma poi il suo pensiero si portò ai Giudei e fatti chiamare i membri principali della comunità ebraica romana, spiegò loro il motivo per cui si trovava in catene. Inoltre disse loro che ha voluto vederli per predicare loro che il Messia è venuto (v. 20). Parecchi Giudei di Roma si fecero Cristiani, mentre altri (la maggior parte) rimasero nell’incredulità. Ora gli increduli cominciarono a contraddire e ad opporsi a quelli che avevano creduto in Gesù e così nacque una rissa tra di loro (v. 24), allora Paolo disse ai Giudei: “Il cuore di questo popolo è diventato insensibile e sono duri d’orecchie ed hanno chiuso i loro occhi: onde non vedano, non odano, non intendano e non si convertano. Vi sia quindi noto come alle Genti è stata mandata la salvezza di Dio ed essi l’ascolteranno” (v. 26-28).
Paolo a Roma dal 61 al 63 “dimorò due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e riceveva tutti quelli che andavano da lui, predicando il regno di Dio e insegnando le cose spettanti al Signore Gesù con ogni libertà, senza che gli fosse proibito” (v. 30-31). Dopo questi due anni Paolo fu rimesso in piena libertà. Come si vede Roma trattava gli Apostoli molto meglio dei Giudei.
Conclusione
Appare chiaro che il Cristianesimo fattoci conoscere dalla divina Rivelazione è molto diverso da quello predicato dai progressisti o dai neopagani. Il mito di un Cristo e di un Cristianesimo pacifista, imbelle, antiromano, filogiudaico, socialistoide, democratico è stato ampiamente sfatato dalla lettura degli Atti degli Apostoli. Il Vangelo predicatoci dai modernisti non è quello della divina Rivelazione. Ora S. Paolo ha scritto: “Se anche un Angelo o noi stessi vi predicassimo un Vangelo diverso da quello che vi è stato tramandato, sia anatema” (Gal., I, 8). Quindi evitiamo ogni lettura e interpretazione “rivoluzionaria” del Cristianesimo quale setta giudaica, anarchica, anti-imperiale, che sarebbe diventato “romano” solo con Costantino.
Introduzione
I progressisti e i neopagani son soliti presentare il Cristianesimo (specialmente quello primitivo e pre-costantiniano) come una religiosità pacifista, buonista, rivoluzionaria, democratica, socialistoide, per i soli poveri, giudaizzante, modernista ed egualitarista. Ora gli Atti degli Apostoli (scritti da S. Luca, divinamente ispirato, attorno al 60 d. C.) ci narrano la vita dei primi Cristiani e degli Apostoli dall’Ascensione sino alla prigionia di S. Paolo a Roma dal 61 al 63. Quindi, se vogliamo capire quale fosse la dottrina e la pratica religiosa dei primi Cristiani dobbiamo studiare gliAtti.
Cristianesimo primitivo giudaizzante?
Il deicidio
San Pietro nel 33, sùbito dopo la Pentecoste, tenne il suo primo discorso ai Giudei e disse: “Gesù Nazareno […] essendo stato tradito, voi trafiggendolo per le mani lo uccideste” (Atti, II, 23).
Come si vede S. Pietro affermò che i Giudei avrebbero dovuto ammettere la messianicità e divinità di Cristo, avendo visto i suoi miracoli. Invece, essendo stato tradito da Giuda dietro istigazione del Sinedrio, fu consegnato ai Giudei e questi, servendosi dei Romani come di uno strumento, lo misero in croce e lo uccisero. Padre Marco Sales commenta: “Quale intrepidezza in Pietro nell’accusare pubblicamente i Giudei di essere i veri responsabili della morte di Gesù, e nell’affermare che i Romani furono semplici strumenti della loro malvagità” (Commento a Gli Atti degli Apostoli, Proceno di Viterbo, Effedieffe, 2016, p. 28, nota 23). Quindi il filo-giudaismo e l’anti-romanità del Cristianesimo primitivo sono confutati sin dalle prime pagine degli Atti, che da una parte insegnano chiaramente la responsabilità dei Giudei e non dei soli Sinedriti nel deicidio, mentre dall’altra mostrano come i Romani avessero cercato di scagionare i Cristiani dalle accuse giudaiche.
S. Pietro rimproverò ancora una volta i Giudei di aver crocifisso Gesù: “Uomini Israeliti […]. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei padri nostri ha glorificato il suo Figlio Gesù, il quale voi avete tradito e rinnegato davanti a Pilato. Quando questi aveva giudicato di liberarlo. Ma voi rinnegaste il santo e il giusto, e chiedeste che vi fosse dato per grazia un omicida. E uccideste l’Autore della vita” (III, 12-15). Anche in questo passo Pietro disse apertamente che i Giudei avevano ucciso Cristo e poi li esortò a fare penitenza (vv. 17-26). Egli spiegò che avevano tradito Gesù consegnandolo, come se fosse un malfattore, in mano al magistrato romano. Inoltre negarono, davanti a Pilato, che Gesù fosse il Messia, mentre Pilato lo aveva riconosciuto innocente e lo voleva liberare, ma essi gli preferirono un assassino: Barabba. In terzo luogo Pietro accusò specialmente i capi del Sinedrio di aver condannato Gesù: “Prìncipi del popolo e seniori, ascoltate […] nel nome del Signore nostro Gesù Cristo Nazareno che voi crocifiggeste” (IV, 10). Padre Sales chiosa: “Quali effetti prodigiosi ha prodotto lo Spirito Santo in S. Pietro! Egli, povero pescatore così timido, parla con tanta franchezza, con tanto coraggio e tanta sapienza che gli stessi membri del Sinedrio restano confusi. […]. S. Pietro rende così testimonianza a Gesù davanti al più alto consesso della nazione, affermando nuovamente la colpa di Israele nella morte di Gesù” (cit., p. 37, nota 8-10).
Le persecuzioni giudaiche contro i Cristiani
Comunemente si dice che i Romani perseguitarono i Cristiani, in realtà le prime persecuzioni furono suscitate e dirette dai Giudei, che in molti casi le fecero eseguire ai Romani. Abbiamo visto come S. Luca riveli che Pilato voleva mandar libero Gesù (III, 12), mentre i Giudei gli preferirono Barabba e condannarono a morte Gesù, facendo eseguire la sentenza da Roma. Inoltre gliAtti ci narrano le prime persecuzioni subite dagli Apostoli: “Mentre gli Apostoli (Pietro e Giovanni) parlavano al popolo, sopraggiunsero i sacerdoti, il magistrato del tempio e i Sadducei, crucciati che istruissero il popolo e annunziassero in Gesù la risurrezione dalla morte: e misero loro le mani addosso e li fecero custodire per il giorno seguente. […]. Affinché non si divulghi maggiormente tra il popolo, proibiamo loro con gravi minacce di non parlare più nel nome di Gesù” (IV, 1-17). Il motivo della persecuzione è sempre lo stesso: la divinità di Cristo. Roma, religiosamente tollerante, non si curava assolutamente di avere una divinità in più e non proibiva la predicazione di Gesù, ma i Giudei la ritenevano una bestemmia da punire con la morte. Di qui tutte le persecuzioni contro Gesù stesso e poi contro gli Apostoli, con il martirio di S. Stefano (35 d. C.) e di S. Giacomo (42 d. C.). Nel capitolo successivo degli Atti si legge che i sacerdoti fecero arrestare i due Apostoli una seconda volta (V, 17-25), ma “L’Angelo del Signore di notte tempo aprì le porte della prigione e condottili fuori disse loro: Andate e state nel tempio a predicare al popolo”. Nel capitolo VI (vv. 8-15) si legge la condanna alla lapidazione di S. Stefano da parte del Sinedrio avvenuta appena 2 anni dopo la crocifissione di Gesù. Dopo la lapidazione di Stefano (descritta nel capitolo VII) gli Atti ci parlano della “Grande persecuzione contro la Chiesa che era in Gerusalemme” (VIII, 1). Padre Sales commenta: “L’odio furioso dei Giudei non fu pago del sangue di una vittima, ma proruppe in una persecuzione violenta contro tutta la comunità cristiana di Gerusalemme” (cit., p. 58, nota 1).
Al capitolo XII degli Atti ci viene narrato il martirio di S. Giacomo il Maggiore, fratello di S. Giovanni l’Evangelista, che morì decapitato nel 42 in Gerusalemme. Il testo sacro recita: “In quel tempo il re Erode cominciò a maltrattare alcuni della Chiesa. E uccise di spada Giacomo fratello di Giovanni. E vedendo che ciò dava piacere ai Giudei, aggiunse di far catturare anche Pietro” (XII, 1-2). In realtà Pietro fu fatto imprigionare, ma fu liberato miracolosamente da un Angelo (XII, 7). Nel 58 anche S. Paolo fu fatto arrestare dal Sinedrio, che avrebbe voluto lapidarlo, ma Paolo fu salvato dal tribuno romano Claudio Lisia che fece intervenire immediatamente i suoi soldati (XXI, 27-40).
Cristianesimo socialista?
Molti asseriscono che i primi Cristiani vivevano in una specie di regime comunista, in cui tutti i beni venivano messi in comune e la proprietà privata era stata abolita. Tuttavia, se leggiamo bene gli Atti vediamo che le cose non stanno esattamente così. Infatti S. Luca rivela che “tutti i credenti erano uniti e avevano tutto in comune. E vendevano le possessioni e i beni, e distribuivano il prezzo a tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (II, 44-45). Questi due versetti vanno bene interpretati e letti alla luce degli altri passi paralleli degli Atti. Essi dicono che i Cristiani cercavano di stare assieme specialmente nelle ore di preghiera, conducevano una vita di famiglia, avendo tutto in comune, simile a quella che Gesù aveva condotto con i suoi Apostoli. I Cristiani ricchi (il Cristianesimo non è la religione dei soli poveri) vendevano i beni che avevano e col guadagno ricavatone sollevavano gli altri Cristiani dalla povertà. Attenzione! S. Luca non dice che i Cristiani erano obbligati a vivere in comune e a vendere tutti i loro beni, ma che molti di loro sceglievano liberamente questo genere di vita, simile a quello delle comunità monastiche, senza che la comunanza di vita fosse obbligatoria né assoluta. Inoltre negli Atti si legge anche che Maria, madre dell’Evangelista Marco, accolse nella sua casa i fedeli (XII, 12). Quindi la proprietà privata era lecita, mentre la scelta della vita in comune era libera. Vediamo bene il testo sacro: “Pietro andò alla casa di Maria madre di Marco, dove stavano congregati molti (Cristiani) e facevano orazione”. Padre Sales commenta: “Maria doveva essere di condizione piuttosto agiata, se poteva fare una chiesa della sua casa” (cit., p. 77, nota 12). Quindi Maria aveva mantenuto la proprietà della “sua” casa ed essa era talmente grande da poter ospitare “molti” Cristiani per pregare assieme. Infine, nell’episodio di Anania e Saffira (V, 4), S. Pietro dice ad Anania che avrebbe potuto ritenere per sé il campo venduto o il prezzo ricavatone. Vediamo bene il testo: “Un certo uomo di nome Anania con Saffira sua moglie vendette un podere, e d’accordo con sua moglie ritenne parte del prezzo: e portatane una porzione, la pose ai piedi degli Apostoli. E Pietro disse: Anania, come mai Satana tentò il cuor tuo da mentire allo Spirito Santo e ritenere il prezzo del podere? Non è vero che conservandolo stava per te, e venduto era in tuo potere? Per qual motivo ti sei messo in cuore tal cosa? Non hai mentito agli uomini, ma a Dio”. Anania vendette liberamente il suo podere, e non era obbligato a farlo, poi per vanagloria finse di offrire a Dio, tramite gli Apostoli, tutto il prezzo ricavato. Ora gli Apostoli erano i messaggeri di Dio. Quindi mancare di sincerità verso loro significava mentire a Dio. È per questo motivo che Anania venne ripreso da Pietro. Padre Sales commenta: “Anania era assolutamente padrone del denaro ricavato; poteva ritenerlo in tutto o in parte come voleva senza commettere alcun peccato; tutta la sua colpa sta nel fatto di aver mentito dicendo agli Apostoli di offrire l’intero prezzo, mentre invece non ne offriva che una parte. Dal rimprovero di Pietro si rende sempre più manifesto che non era cosa di obbligo spogliarsi degli averi, che si fossero posseduti” (cit., p. 40, nota 4). Ancora una volta S. Luca ci dice che i Cristiani “erano un solo cuore e una sola anima: e né vi era chi dicesse essere sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto tra essi era comune. […]. E non vi era alcun bisognoso tra di essi. Mentre tutti coloro che possedevano case o terreni li vendevano e portavano il prezzo delle cose venduta e lo deponevano ai piedi degli Apostoli e si distribuiva a ciascuno secondo il suo bisogno” (IV, 32-35). Padre Sales commenta: “In forza di questa grande carità che vi era tra i Cristiani, è naturale che i ricchi ritenessero le loro sostanze come depositi affidati da Dio alla loro custodia, e si mostrassero pieni di generosità verso gli indigenti. […]. Vi erano tra i Cristiani alcuni poveri, ma venivano soccorsi dalla generosità dei ricchi, per modo che non erano propriamente bisognosi. Quanto alla dicitura ‘tutti coloro che possedevano’, non si devono prendere queste parole in un senso troppo stretto, quasi che tra i Cristiani ‘tutti’ si spogliassero delle loro possessioni, poiché sappiamo che la madre di Marco, benché cristiana, aveva una casa (XII, 12) e di più lo stesso S. Pietro affermò, davanti ad Anania e Saffira (XII, 14), che non era d’obbligo vendere le proprie sostanze. Tuttavia è certo che alcuni si spogliavano realmente di tutto ed altri vendettero solo parte dei loro beni per soccorrere il loro prossimo” (cit., pp. 39-40, nota 33-34).
Come si vede il Cristianesimo apostolico non aveva nulla a che spartire con la dottrina comunista.
Cristianesimo democratico?
Gli Atti narrano che i Dodici Apostoli decisero di nominare dei Diaconi (VI, 1-7) di modo che questi ultimi si dedicassero al servizio dei bisognosi e i primi alla orazione e alla predicazione del Vangelo. Quindi sin dall’inizio la Chiesa risulta essere gerarchica, ossia costituita da membri che comandano e membri che ubbidiscono. Infatti i Dodici “fatta orazione imposero loro (ai Diaconi) le mani” (VI, 6). Padre Sales commenta: “Per il fatto stesso che l’imposizione delle mani è qui accompagnata dall’orazione liturgica e che agli eletti viene affidata anche la predicazione del Vangelo (VI, 10; VIII, 5) è chiaro che con questo rito gli Apostoli non intesero solo di dare una benedizione qualunque, ma vollero consacrare gli eletti a Dio per il ministero della Chiesa e conferire loro una parte di quell’autorità che essi avevano ricevuto da Gesù Cristo. L’imposizione delle mani, congiunta con la preghiera, fu quindi una vera ordinazione, che conferì agli eletti l’autorità e la grazia necessaria per adempiere degnamente le funzioni del loro ministero. Queste funzioni non erano solo di servire alle mense e occuparsi delle cose temporali, ma anche di distribuire la SS. Eucarestia e di predicare il Vangelo. Gli investiti di tali funzioni vennero chiamati Diaconi” (cit., p. 46, nota 6). Quindi si vede bene che la Chiesa sin dall’inizio era gerarchica e non democratica, composta di fedeli, Diaconi, Presbiteri, Apostoli sotto un solo Capo: Pietro. E quando sorse il problema dogmatico, se per salvarsi occorresse osservare ancora il cerimoniale del Vecchio Testamento, gli Apostoli salirono a Gerusalemme, si riunirono in Concilio (nel 50), in cui Pietro definì che bastava la fede in Cristo accompagnata dalle buone opere (XV, 1-34).
“È un fatto storico incontestabile che già nel II secolo le comunità cristiane erano rette da singoli vescovi” (A. Lang, Compendio di Apologetica, Casale Monferrato, Marietti, II ed., 1960, p. 346), ossia ogni diocesi aveva un solo vescovo. Questo è il mono-episcopato o l’episcopato monarchico diocesano subordinato a quello monarchico del romano Pontefice.
S. Ireneo da Lione († 202), discepolo di S. Policarpo († 167) che a sua volta era stato discepolo dell’Apostolo S. Giovanni, ha insegnato costantemente il valore fondamentale della Tradizione apostolica contro le eresie (specialmente lo Gnosticismo) che già funestavano la Chiesa e in pratica per stabilire ove risiedesse la vera Tradizione apostolica si fondava sulla successione ininterrotta dei vescovi dagli Apostoli.
Egli scriveva: “Noi possiamo enumerare i vescovi delle singole chiese particolari o diocesi nominati dagli Apostoli ed i loro successori sino ai tempi nostri” (S. Ireneo, Adv. haer., III, 3, 1). Ciò significa che al tempo di S. Ireneo ogni chiesa particolare o diocesi aveva un singolo vescovo.
Eusebio da Cesarea (265-339) nella sua Historia Ecclesiastica scriveva che verso il 150 i mono-episcopi detenevano dappertutto il governo delle singole diocesi. Egli ha narrato che l’eresia montanista negava la Chiesa gerarchica fondata su Pietro e gli Apostoli e i loro successori (il Papa e i vescovi) e le contrapponeva la Chiesa profetica (errore ripreso dal millenarismo gioachimita e dal carismatismo protestantico). I singoli vescovi nelle loro diocesi e in concili provinciali combatterono questa eresia. Ciò dimostra come il mono-episcopato fosse non solo esistente, ma pienamente attivo sin dai primi anni della Chiesa (Hist. Eccles., V, 3, 4 ss.; VI, 12, 1 ss.).
S. Ignazio di Antiochia († 110) è l’autore che ci ha lasciato la testimonianza più importante sull’esistenza dell’episcopato monarchico dei vescovi nelle loro diocesi (Ephes., 3, 2): nelle comunità cristiane dell’Asia Minore tra la fine del I secolo e l’inizio del II esisteva già una netta divisione in tre gradi dell’ufficio gerarchico ecclesiastico: il mono-episcopato, il presbiterato e il diaconato e dovunque il singolo vescovo esercitava la piena giurisdizione sulla sua diocesi. “Il vescovo unico è l’immagine del Padre” (Trall., 3, 1). Quel che è molto interessante è il fatto che S. Ignazio non spiegava l’origine del mono-episcopato, né lo motivava o lo giustificava perché secondo lui era un fatto stabile, già definito e tradizionale.
La Chiesa non è una evoluzione autoritaria delle primitive e spontanee comunità cristiane a base carismatica e democratica. Essa risale alla divina Istituzione da parte di Gesù Cristo. La Chiesa primitiva e le prime diocesi non poggiano su un potere conferito loro dal basso, ossia dalla comunità dei fedeli, ma su un potere che viene dall’Alto. Il governo della Chiesa è sin da principio di natura autoritaria, monarchica (cfr. R. Sohm, Kirchenrecht, Leipzig, 1892, vol. I, p. 54). Tutti i poteri, le grazie e le verità arrivano alla Chiesa da Cristo come fonte tramite gli Apostoli come canali, che hanno una successione ininterrotta per divina Istituzione tramite i Papi e i vescovi. La successione apostolica e petrina è essenziale per la Chiesa (Tertulliano, De praescr. haeret., 32, 1; S. Ippolito,Philosophumena, I, pref.; Eusebio da Cesarea, Hist. Eccl., VI, 43, 8-9).
Cristianesimo buonista?
Nel caso, già visto, di Anania e Saffira (V, 1-11) si legge anche che S. Pietro li rimproverò per avere mentito a Dio e “udito che ebbe Anania queste parole cadde e spirò. E gran timore entrò in quelli che udirono. E si mossero alcuni giovani e lo tolsero di là e lo portarono a seppellire” (V, 5-6). Infatti “Anania sapeva che gli Apostoli erano come gli organi dello Spirito Santo e che mancare di sincerità verso di loro era un mentire a Dio. Anania era assolutamente padrone del denaro ricavato dalla vendita del suo terreno; tutta la sua colpa consisté nell’aver mentito dicendo il falso. […]. Con questo esempio terribile [della morte repentina di Anania, ndr] Dio volle far vedere quanto aborrisca la menzogna e il sacrilegio e volle pure rendere più rispettabile la persona e l’Autorità dei suoi Apostoli” (M. Sales, cit. p. 40, nota 3-4). Lo stesso avvenne a Saffira (la moglie di Anania). Padre Sales commenta: “Alcuni Padri hanno pensato che Dio, infliggendo un sì terribile castigo temporale ai due coniugi, abbia voluto risparmiare loro la vita eterna” (cit., p. 41, nota 11). Certamente l’atteggiamento di S. Pietro e di Dio non è buonista, ma sommamente giusto e nello stesso tempo misericordioso.
La giustizia e la severità di Dio appaiono anche nella descrizione della morte di Erode Antipa (XII, 23), che si compiacque di essere onorato e adulato come Dio, ma “ad un tratto l’Angelo del Signore percosse Erode perché non aveva dato gloria a Dio: e, roso dai vermi, spirò”. Padre Sales commenta: “L’Angelo della vendetta di Dio sùbito lo punì della sua arroganza. Anche Giuseppe Flavio narra che poco dopo aver ascoltato quella adulazione Erode fu colto da forti dolori di visceri, e in capo a 5 giorni morì, all’età di 54 anni. La sua morte avvenne nell’anno 44. Così il primo persecutore della Chiesa fu colpito da Dio con quella stessa malattia da cui era stato colpito il profanatore del tempio: Antioco Epifane” (cit., p. 78, nota 23).
Un altro esempio di severità e assenza di buonismo presso i primi Cristiani lo troviamo nel processo intentato dal Sinedrio (ancora una volta non sono i Romani a perseguitare i Cristiani, ma i Giudei) a S. Paolo nel 58 (XXIII, 1-10). Infatti mentre Paolo veniva interrogato, “Anania, il principe dei sacerdoti, ordinò ai circostanti che lo percuotessero nella bocca” (XXIII, 2). Ma S. Paolo rispose: “Iddio percuoterà te, sepolcro imbiancato. Tu siedi per giudicarmi secondo la legge e, contro la legge, ordini che sia percosso?” (v. 3). In realtà Anania morì assassinato 8 anni dopo da un sicario nel 66 (Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, II, 7, 9). Le parole di Paolo “non esprimono un desiderio di vendetta, ma una minaccia della giustizia di Dio, che non lascerà impunito l’oltraggio ricevuto. Inoltre S. Paolo definisce ‘sepolcro imbiancato’ Anania perché realmente era apparentemente senza macchie al di fuori, ma pieno di iniquità e di ipocrita perfidia al di dentro. Infatti mentre sembrava agire per amor di giustizia, si lasciava trasportare dall’odio, ledendo la giustizia” (M. Sales, cit., p. 135, nota 2-3). Inoltre quando “i circostanti dissero a Paolo: Tu oltraggi il Sommo Sacerdote di Dio?” (v. 4) l’Apostolo rispose: “Fratelli, io non sapevo che egli è il Principe dei Sacerdoti” (v. 5). Secondo gli esegeti “Paolo parlerebbe con ironia: Non sapevo che fosse Sommo Sacerdote costui, che in modo così aperto vìola la legge” (M. Sales, cit., p. 135, nota 5). Anche qui è assente ogni ombra di spirito buonista e pacifista.
Cristianesimo anti-complottista?
Sempre negli Atti (XXIII, 12-15) si legge la narrazione del complotto che ordirono i Giudei contro S. Paolo. Infatti mentre l’Apostolo veniva giudicato dal Sinedrio, il tribuno romano (Lisia) lo salvò e lo fece portare al sicuro in una fortezza per paura che i Giudei “lo facessero a pezzi” (v. 9). Allora “si riunirono alcuni dei Giudei e giurarono sopra di sé, dicendo che non avrebbero mangiato né bevuto, finché non avessero ucciso Paolo. Ed erano più di quaranta quelli che avevano fatto questa congiura” (v. 12-13). Appare chiara, nella divina Rivelazione, la narrazione del complotto ordito dalla “Sinagoga di Satana” (Apoc., II, 9) contro il Cristianesimo sin dai suoi primi anni di vita e come, quindi, il Cristianesimo sia alieno da ogni tendenza anti-complottista.
Cristianesimo antiromano?
S. Paolo nel 58 venne trascinato davanti al tribunale romano in Cesarea dai Giudei (XXIV, 1-9) e comparve davanti al tribuno Felice. Ora mentre i Giudei avrebbero voluto uccidere Paolo questi si appellò a Cesare per essere interrogato e giudicato dall’Imperatore romano, essendo Palo cittadino romano (XXV, 1-12). Si vede, quindi, che l’Apostolo ebbe più fiducia nell’Imperatore che nel Sinedrio. Inoltre quando S. Paolo nell’autunno del 60 partì da Cesarea, dopo esservi restato circa 2 anni (dal 58 al 60), su una nave per andare a Roma ed essere interrogato da Nerone, venne consegnato ad un centurione romano di nome Giulio (XXVII, 1), che “lo trattò umanamente, gli permise di andare a trovare i Cristiani [nei vari scali fatti dalla nave, ndr] e di ristorarsi” (XXVII, 3). Quando Paolo, dopo varie peripezie, giunse a Roma nella primavera del 61 (XXVIII, 16) gli “fu permesso di starsene da sé con un soldato che lo custodiva”. Padre Sales commenta: “Le buone informazioni date dal tribuno Festo nella lettera con cui aveva fatto accompagnare Paolo a Roma e i buoni uffizi del centurione Giulio, fecero sì che l’Apostolo venisse trattato con molta indulgenza, e invece di essere relegato in una prigione, potesse rimanere da sé presso qualche cristiano, oppure in qualche casa d’affitto sotto la continua custodia di un soldato pretoriano. […]. Il soldato di guardia veniva cambiato spesso e così Paolo ebbe occasione di far conoscere il Vangelo a molti pretoriani (cfr. Filipp., I, 12). Paolo consacrò i primi giorni della sua permanenza in Roma sia a riposarsi alquanto dal lungo viaggio e sia ad istruire e confortare i Cristiani; ma poi il suo pensiero si portò ai Giudei e fatti chiamare i membri principali della comunità ebraica romana, spiegò loro il motivo per cui si trovava in catene. Inoltre disse loro che ha voluto vederli per predicare loro che il Messia è venuto (v. 20). Parecchi Giudei di Roma si fecero Cristiani, mentre altri (la maggior parte) rimasero nell’incredulità. Ora gli increduli cominciarono a contraddire e ad opporsi a quelli che avevano creduto in Gesù e così nacque una rissa tra di loro (v. 24), allora Paolo disse ai Giudei: “Il cuore di questo popolo è diventato insensibile e sono duri d’orecchie ed hanno chiuso i loro occhi: onde non vedano, non odano, non intendano e non si convertano. Vi sia quindi noto come alle Genti è stata mandata la salvezza di Dio ed essi l’ascolteranno” (v. 26-28).
Paolo a Roma dal 61 al 63 “dimorò due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e riceveva tutti quelli che andavano da lui, predicando il regno di Dio e insegnando le cose spettanti al Signore Gesù con ogni libertà, senza che gli fosse proibito” (v. 30-31). Dopo questi due anni Paolo fu rimesso in piena libertà. Come si vede Roma trattava gli Apostoli molto meglio dei Giudei.
Conclusione
Appare chiaro che il Cristianesimo fattoci conoscere dalla divina Rivelazione è molto diverso da quello predicato dai progressisti o dai neopagani. Il mito di un Cristo e di un Cristianesimo pacifista, imbelle, antiromano, filogiudaico, socialistoide, democratico è stato ampiamente sfatato dalla lettura degli Atti degli Apostoli. Il Vangelo predicatoci dai modernisti non è quello della divina Rivelazione. Ora S. Paolo ha scritto: “Se anche un Angelo o noi stessi vi predicassimo un Vangelo diverso da quello che vi è stato tramandato, sia anatema” (Gal., I, 8). Quindi evitiamo ogni lettura e interpretazione “rivoluzionaria” del Cristianesimo quale setta giudaica, anarchica, anti-imperiale, che sarebbe diventato “romano” solo con Costantino.