Joseph Ratzinger, il concilio Vaticano II e quei conservatori che minavano la Tradizione

Ripropongo un interssante articolo da meditare postato su unavox.it e scritto da Francesca de Villasmundo
p.Elia

E’ stato pubblicato in Italia il primo volume degli scritti del prof. Ratzinger durante e sul concilio Vaticano II. 726 pagine che costituiscono il VII volume dell’Opera Omnia edita dalla Libreria Editrice Vaticana. I testi pubblicati in questo volume sono in gran parte inediti.
Per Joseph Ratzinger, il concilio Vaticano II ha avviato un «rinnovamento» della Chiesa, da lui vissuto con entusiasmo e di cui fu un ardente promotore.
«Fu un tempo di attesa straordinaria. Grandi cose dovevano avvenire».
Divenuto Papa Benedetto XVI, di fronte alle molteplici derive progressiste prodotte dal Concilio e ad una Chiesa che egli non può evitare di descrivere come una «vecchia barca che fa acqua da tutte le parti», questo fervente sostenitore e artefice della riforma conciliare, ha insistito su una «ermeneutica della continuità» del concilio Vaticano II con la Tradizione, «un rinnovamento nella continuità», in opposizione ad una «ermeneutica della rottura» tra il Vaticano II e la Tradizione, pretendendo che i decreti conciliari non comportassero alcuna alterazione genetica della Chiesa, dei dogmi e della sua dottrina.

Tuttavia, come spiega Don Michel Gleize in un articolo apparso nel 1971 [Una questione cruciale], il principio di continuità di Benedetto XVI
«non esige per prima cosa e innanzi tutto l’unità della verità, ma l’unità del soggetto che si sviluppa e ingrandisce nel corso del tempo. E’ l’unità del Popolo di Dio come esso la vive nel momento presente, nel mondo di questo tempo, per riprendere il titolo suggestivo della costituzione pastorale Gaudium et spes.»
«E precisamente si parla di continuità a proposito di un soggetto [Chiesa] che evolve nel corso del tempo. Non si tratta della continuità di un oggetto, quella del dogma o della dottrina, che il Magistero della Chiesa esporrebbe oggi, dandogli lo stesso senso di un tempo. Si tratta della continuità dell’unico soggetto Chiesa.»
Attraverso questa espressione: «ermeneutica della continuità», non è dunque della continuità del dogma e della dottrina con la Tradizione che parla Benedetto XVI, anche se è questo che il fedele comprende. E infatti il concilio Vaticano II ha creato una rottura con l’insegnamento tradizionale e immutabile della Chiesa cattolica, enunciando una dottrina nuova che contraddice la passata predicazione della Chiesa cattolica, particolarmente nel dominio della libertà religiosa, della collegialità e dell’ecumenismo. Mons. Lefebvre, il capo fila dei vescovi garanti della Tradizione, vedeva nel Vaticano II «la più grande catastrofe di tutta la storia della Chiesa» e la paragonava ad una «terza guerra mondiale». In un’intervista al Figaro del 4 agosto 1976, egli espresse quest’altro commento: «girando le spalle alla Tradizione e rompendo con la Chiesa del passato, [il Vaticano II] è un concilio scismatico».

Tornando alla raccolta dei testi del teologo Ratzinger sul Concilio, vi è un passo significativo che testimonia del suo spirito eminentemente modernista, in rottura con la Tradizione, nonostante egli ami le belle cerimonie liturgiche con incenso e latino; un passo relativo agli scritti sulla Nota previa, il testo firmato dal cardinale Pericle Felici per spiegare i criteri con i quali occorre leggere i passi sulla collegialità episcopale contenuti nella Costituzione apostolica Lumen Gentium, quegli stessi che i difensori della linea tradizionale avevano contestato al Concilio come possibili fattori d’indebolimento dell’autorità pontificia.

Secondo Ratzinger, su questa questione della Nota previa, che egli non apprezzava affatto, si sarebbero affrontati due correnti presenti al Concilio.
Da un lato: 
 «Un pensiero che partiva dall’intera estensione della Tradizione cristiana e, appoggiandosi ad essa, cercava di descrivere la costante ampiezza della possibilità ecclesiale.»
Dall’altro:
«Una mentalità puramente sistematica che ammette solamente la forma giuridica attuale della Chiesa come criterio per le sue riflessioni, e dunque teme necessariamente che qualunque movimento al di fuori di essa sarebbe un cadere nel vuoto.»
A seguire il ragionamento di Joseph Ratzinger, coloro che si crede siano stati i difensori della Tradizione durante il Concilio, come Mons. Marcel Lefebvre e gli altri membri del Coetus Internationalis Patrum, in realtà ne sarebbero gli affossatori. Mentre i modernisti, secondo lui, sarebbero i veri amici della Tradizione cristiana…
In appoggio a questa tesi, Joseph Ratzinger spiega che il «conservatorismo» della seconda opzione si radicherebbe
«nella sua estraneità rispetto alla storia e dunque in fondo in una “carenza” della Tradizione, vale a dire di apertura verso l’insieme della storia cristiana.»
Il giovane teologo Ratzinger, che non rinnega niente delle sue parole visto che le pubblica oggi in italiano, offre una descrizione preconcetta di un conflitto tra «conservatori» timorosi per la possibile «lacerazione» della Tradizione e i «progressisti» condizionati da pulsioni moderniste ed erronee; per lui in realtà le cose starebbero in maniera diversa: quelli etichettati come «progressisti» o almeno «la parte dominante» avrebbero lavorato per favorire «un ritorno all’ampiezza e alla ricchezza di ciò che è stato trasmesso», così da ritrovare le fonti del rinnovamento che desideravano nella «ampiezza intrinseca della Chiesa».
In parole più chiare: i modernisti erano la Tradizione mentre i conservatori erano gli estranei alla Tradizione!

Questa interpretazione capziosa di Ratzinger, che deforma la realtà sulle due correnti che si affrontarono al concilio Vaticano II, è un perfetto esempio del nuovo linguaggio orwelliano che imperversa in Vaticano come altrove.
Nel 1984 di Georges Orwell si può leggere questa descrizione:
«La guerra è la pace, la libertà è la schiavitù, l’ignoranza è la forza».
Il pensiero di Joseph Ratzinger sul concilio Vaticano II, tradotto nel nuovo linguaggio è il seguente:
«La Tradizione è il modernismo» o inversamente «il modernismo è la Tradizione.»
Non serve un lungo discorso per dimostrare il fallace ragionamento del futuro Benedetto XVI, che in seguito egli ha etichettato come «ermeneutica del rinnovamento nella continuità». La crisi di fede senza precedenti e l’apostasia silenziosa di questa fede cattolica nel mondo, lo stato deplorevole dell’istituzione ecclesiale, le chiese vuote, la perdita del senso dottrinale e liturgico negli ecclesiastici come nei fedeli, senza parlare dei molteplici scandali finanziari e soprattutto dei costumi: pedofilia nascosta e omosessualità ostentata, sono là per testimoniare i disastri che ha provocato in 50 anni lo spirito del Concilio e il suo progressismo, il suo neoprotestantesimo e il suo neomodernismo affermati.
Difficile mettere questi terribili mali in conto ad una Tradizione compresa, amata e trasmessa adeguatamente dai modernisti al Concilio!

No! I modernisti non sono legati alla Tradizione, checché voglia far credere, ieri come oggi, Joseph Ratzinger.

D’altronde, il santo Papa Pio X ha già condannato il modernismo e i suoi adepti. Il 3 luglio 1907, col decreto Lamentabili sane Exitu, egli condannò gli errori del modernismo, definito come il «collettore di tutte le eresie». L’8 settembre 1907, nell’enciclica Pascendi Dominici gregis sulle dottrine moderniste, egli presentò un ritratto tipo del modernista (il filosofo, il credente, il teologo, lo storico, il critico, l’apologeta, il riformatore) e spiegò i principii fondamentali che alimentavano il suo pensiero (agnosticismo, immanentismo, evoluzionismo, soggettivismo, relativismo):
«Ma basti sin qui per conoscere per quante vie la dottrina del modernismo conduca all’ateismo e alla distruzione di ogni religione. L’errore dei protestanti dié il primo passo in questo sentiero; il secondo è del modernismo: a breve distanza dovrà seguire l’ateismo. […] Ed a rompere senza più gl’indugi Ci spinge anzitutto il fatto, che i fautori dell’errore già non sono ormai da ricercarsi fra i nemici dichiarati; ma, ciò che dà somma pena e timore, si celano nel seno stesso della Chiesa, tanto più perniciosi quanto meno sono in vista. Alludiamo, o Venerabili Fratelli, a molti del laicato cattolico e, ciò ch’è più deplorevole, a non pochi dello stesso ceto sacerdotale, i quali, sotto finta di amore per la Chiesa, scevri d’ogni solido presidio di filosofico e teologico sapere, tutti anzi penetrati delle velenose dottrine dei nemici della Chiesa, si dànno, senza ritegno di sorta, per riformatori della Chiesa medesima; e, fatta audacemente schiera, si gittano su quanto vi ha di più santo nell’opera di Cristo, non risparmiando la persona stessa del Redentore divino, che, con ardimento sacrilego, rimpiccioliscono fino alla condizione di un puro e semplice uomo.»